Nel 1981, un anno dopo la sua uscita ufficiale, sentii per la prima volta “Seventeen seconds” dei Cure. Dopo aver finito di ascoltare tutti i brani contenuti nel vinile cominciai un gesto ripetitivo alla ricerca di una sensazione di smarrimento e fascinazione causata dal suono della chitarra all'inizio di “A forest”. La puntina rimessa all'inizio della traccia si incastrava nel solco ancora vuoto e le piccole esplosioni elettrostatiche introducevano le note dello strumento che, passando per un flanger quasi imbarazzante per la quantità di effetto che legava la sequenza delle note stesse, costruivano una vera e propria immagine.
E' un bosco new wave, gotico quello nel quale Robert Smith innesta la sensazione di paura legata ad una sua esperienza di bambino. Un bosco che si offre all'immaginario dei giovani all'inizio degli anni '80 con ancora la caratteristica e la diversa potenzialità di un mondo privo della trama rizomatica di internet a portata di tasca.
E' un bosco new wave, gotico quello nel quale Robert Smith innesta la sensazione di paura legata ad una sua esperienza di bambino. Un bosco che si offre all'immaginario dei giovani all'inizio degli anni '80 con ancora la caratteristica e la diversa potenzialità di un mondo privo della trama rizomatica di internet a portata di tasca.
Nello stesso anno in cui usciva “Seventeen seconds” dei Cure, il 1980, Gilles Deleuze e Felix Guattari portavano a compimento “Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie”. Un esperimento di pensiero che non può essere costretto alla sola definizione di esercizio filosofico. La struttura del libro è già una dimensione dell'opera: non si parla di capitoli ma di piani. E come tali, poggiando uno sull'altro, sono passibili di interferenze, osmosi, trasudazioni, fratture, collassi, così da rendere possibile la migrazione delle cose e delle questioni da un livello all'altro, eludendo la classica struttura gerarchica e temporale dei capitoli.
"Non ci si domanderà mai quel che un libro vuole dire, significato o significante, non si cercherà niente da comprendere in un libro, ci si domanderà con che cosa funziona, in connessione a che cosa fa o non fa passare delle intensità, in quali molteplicità introduce e metamorfizza la propria” (1)
Così Deleuze e Guattari ci accolgono dopo poche pagine. Ed è questa una delle risonanze di questo lavoro, ovvero la capacità di scalzare sin dal principio un atteggiamento abitudinario alla lettura. Un approccio basato spesso ed esclusivamente su una comprensione logica dei fatti narrati. I due ci mettono di fronte alle parole, alle virgole, a nuovi acronimi costruendo frasi che trovano un appoggio solo se, leggendo, si viene profondamente ingaggiati in un confronto. Non si tratta di un atteggiamento bellicoso, piuttosto invece parlerei più di fiducia, di predisposizione all'accoglimento.
Ma non è su “Mille plateaux” che voglio dirigermi, mentre invece da questo libro e, appunto, dalla sua fisiologia stratificata, dalla combinazione dei suoi mille piani, dalle possibilità che queste superfici hanno di macchiarsi una dell'altra che ho preso spunto per costruire una ricerca sul bosco e, in generale, sulla rappresentazione di ciò che definiamo natura.
E' proprio questo il punto di osservazione, di analisi e di partenza: la rappresentazione. Da questa azione di messa in scena, di addomesticamento, di antropomorfizzazione, di costrizione ed errata traduzione, piegata all'utilizzo funzionale del concetto di natura a favore dell'uomo è davvero difficile e quasi impossibile liberarsi. La narrazione nella quale, per esempio, le vite degli animali, dei vegetali, dei minerali sono inserite nei documentari televisivi è ancora oggi perversa e assolutamente ideologica. Il valore di aggettivi come feroce, premuroso, coraggioso etc etc riferiti agli animali, o dire della natura che è spietata, che si ribella, che prende il sopravvento è probabilmente una delle ipocrisie più frequenti che pratichiamo senza rendercene conto. Applichiamo categorie e pregiudizi ove non è possibile farlo, se non per una legge umana legata alla necessità di sentirci altra cosa da quell'insieme che a tutti gli effetti ci contiene, con la conseguente perdita della responsabilità.
Ma non è su “Mille plateaux” che voglio dirigermi, mentre invece da questo libro e, appunto, dalla sua fisiologia stratificata, dalla combinazione dei suoi mille piani, dalle possibilità che queste superfici hanno di macchiarsi una dell'altra che ho preso spunto per costruire una ricerca sul bosco e, in generale, sulla rappresentazione di ciò che definiamo natura.
E' proprio questo il punto di osservazione, di analisi e di partenza: la rappresentazione. Da questa azione di messa in scena, di addomesticamento, di antropomorfizzazione, di costrizione ed errata traduzione, piegata all'utilizzo funzionale del concetto di natura a favore dell'uomo è davvero difficile e quasi impossibile liberarsi. La narrazione nella quale, per esempio, le vite degli animali, dei vegetali, dei minerali sono inserite nei documentari televisivi è ancora oggi perversa e assolutamente ideologica. Il valore di aggettivi come feroce, premuroso, coraggioso etc etc riferiti agli animali, o dire della natura che è spietata, che si ribella, che prende il sopravvento è probabilmente una delle ipocrisie più frequenti che pratichiamo senza rendercene conto. Applichiamo categorie e pregiudizi ove non è possibile farlo, se non per una legge umana legata alla necessità di sentirci altra cosa da quell'insieme che a tutti gli effetti ci contiene, con la conseguente perdita della responsabilità.
Ci togliamo fuori arbitrariamente, o meglio, ci illudiamo di essere da un'altra parte. Guardando alla natura inevitabilmente applichiamo alla sua percezione e rappresentazione quello che Barthes definiva studium (2), un filtro, un effetto, un preconcetto che fin da bambini abbiamo assorbito intimamente. Ciò accade anche quando volgiamo lo sguardo verso altre direzioni.
“Nella precipitazione che abbiamo nel misurare lo storico, il rivelatore, non dimentichiamo però l’essenziale: ciò che è davvero intollerabile, veramente inammissibile: lo scandalo non è l'incidente occasionale al minatore causato dalle condizioni di lavoro ma è il lavoro nelle miniere! Il “malcontento sociale” non è “preoccupante” durante lo sciopero, è intollerabile ventiquattr’ore su ventiquattro, trecentossantacinque giorni all’anno.
”
Georges Perec aveva certamente compreso quale fosse il luogo del conflitto e della responsabilità.
Georges Perec aveva certamente compreso quale fosse il luogo del conflitto e della responsabilità.
“Dormiamo la nostra vita di un sonno senza sogni. Ma dov’è la nostra vita? Dov’è il nostro corpo? Dov’è il nostro spazio? Come parlare di queste “cose comuni”, o meglio, come braccarle, come stanarle, come liberarle dalle scorie nelle quali restano invischiate; come dar loro un senso, una lingua: che possano finalmente parlare di quello che è, di quel che siamo.
Forse si tratta di fondare finalmente la nostra propria antropologia: quella che parlerà di noi, che andrà a cercare dentro di noi quello che abbiamo rubato così a lungo agli altri. Non più l’esotico, ma l’endotico.” (3)
Ogni alluvione, ogni terremoto, ogni frana, ogni uragano sembra accadere solo per il fatto che se ne parla in termini di morti, feriti, dispersi, danni alle cose e al paesaggio. Ma un terremoto è paesaggio! Uno smottamento, un monsone, un fulmine non sono altro che quello che sono!
La visione antropocentrica ci rende sempre più miopi. Ogni fotografia, e di conseguenza ogni fotografia di un bosco, è determinata da una scelta che imprime all'immagine ottenuta densità tecniche, estetiche e politiche.
Ogni alluvione, ogni terremoto, ogni frana, ogni uragano sembra accadere solo per il fatto che se ne parla in termini di morti, feriti, dispersi, danni alle cose e al paesaggio. Ma un terremoto è paesaggio! Uno smottamento, un monsone, un fulmine non sono altro che quello che sono!
La visione antropocentrica ci rende sempre più miopi. Ogni fotografia, e di conseguenza ogni fotografia di un bosco, è determinata da una scelta che imprime all'immagine ottenuta densità tecniche, estetiche e politiche.
La domanda che mi sono posto riguarda la possibilità di utilizzare il mezzo fotografico in modo da minimizzare al massimo l'attivazione dello studium, di quell'insieme di livelli di opacità sui quali hanno preso forma, come proiezioni che si sommano e confondono tra loro, le nostre inevitabili impronte culturali. Per fare questo ho scelto di utilizzare la pellicola analogica. E' stata un'opzione obbligata per evitare l'approccio frontale fotografo – soggetto.
E' possibile realizzare fotografie senza l'apparato fotografico, senza otturatore, senza obiettivo, senza camera ottica, senza energia supplettiva. Ma solo utilizzando materiale fotosensibile, emulsioni di alogenuri d'argento. Togliendo di mezzo la macchina fotografica si evitano certe densità tecniche e politiche legate alla pratica classica della fotografia mentre se ne aprono altre legate all'estetica, alle microdimensioni materiche dei sali argentici, alle superfici dei supporti delle emulsioni che ricevono e trattengono segnali chimici e meccanici.
E' possibile realizzare fotografie senza l'apparato fotografico, senza otturatore, senza obiettivo, senza camera ottica, senza energia supplettiva. Ma solo utilizzando materiale fotosensibile, emulsioni di alogenuri d'argento. Togliendo di mezzo la macchina fotografica si evitano certe densità tecniche e politiche legate alla pratica classica della fotografia mentre se ne aprono altre legate all'estetica, alle microdimensioni materiche dei sali argentici, alle superfici dei supporti delle emulsioni che ricevono e trattengono segnali chimici e meccanici.
Il dispositivo da attivare è una sorta di trappola e come tale va posta in situ. Ho posizionato delle pellicole 4x5” in delle buche scavate nel bosco. L'operatore esercita le sue scelte decidendo il punto dove posizionare il materiale ricettivo e quando andare a raccoglierlo. Le due operazioni devono ovviamente essere svolte al buio. Le lastre così impresse hanno poi subito il classico processo di sviluppo. Queste rappresentazioni del bosco sono nuove opportunità per immaginare il bosco. L'origine del segno che rimane impresso è fisicamente così vicino alla superficie ricevente che in alcuni punti corrisponde all'emulsione stessa. “Disumanizzando” la pratica fotografica ed esercitandone in parte la tecnica suggerisco un tentativo di bypassare le questioni poste da Barthes o quantomeno offrire altri piani di appoggio e di lettura all'esercizio della fotografia e della filosofia.
“Lo spazio liscio o nomade è fra due spazi striati: quello della foresta, con le sue verticali di pesantezza; quello dell'agricoltura, con la sua suddivisione e le sue parallele generalizzate, la sua arborescenza divenuta indipendente, la sua arte di estrarre l'albero e il legno dalla foresta. Ma “fra” può significare sia che lo spazio liscio è controllato dai due lati che lo limitano, che si oppongono al suo sviluppo e gli assegnano nella misura del possibile un ruolo di comunicazione, sia al contrario che si rivolta contro di essi, da un lato strappando terreno alla foresta, dall'altro invadendo le terre coltivate, affermando una forza non comunicante o di scarto, come un cuneo che si conficca” (4)
Una parte di questa ricerca, cominciata diversi anni fa, è stata svolta nel fondo valle sotto il paese di Topolò, e nello specifico in quella parte chiamata Stamorčak.
(1) Gilles Deleuze, Felix Guattari – Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie – Introduzione: rizoma - 1980 (2) Roland Barthes - La Chambre claire: Note sur la photographie – 1980 (3) Georges Perec – L'infra-ordinaire – 1989 (4) Gilles Deleuze, Felix Guattari – Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie – Trattato di nomadologia: la macchina da guerra - 1980
Le fotografie di 1980x4x5 sono state esposte nella mostra MAY CONTAIN TRACE OF FOREST dal 9 giugno 2023 al 15 dicembre 2023 al Circolo del Design di Torino, a cura di Giorgio Vacchiano e Elisabetta Donati de Conti, all'interno del progetto Earthrise 23